16 ottobre 1943

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la deportazione degli ebrei di Roma

 

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16 ottobre 1943, quando la solidarietà ha vinto l'orrore

Le storie di Emanuele Di Porto e Mario Mieli, salvati dal rastrellamento del ghetto di Roma da uomini e donne sconosciute, a rischio della loro stessa vita

da Roma Sette, del 28/01/2020
di Roberta Pumpo

Accanto ai racconti sulle atrocità della Shoah, sul dolore del rastrellamento, sull’orrore dei campi di concentramento, ci sono anche storie di solidarietà e coraggio di uomini e donne che hanno rischiato la propria vita per salvare quella di due bambini. In una delle pagine più nere della storia, Emanuele Di Porto e Mario Mieli sono testimoni dell’altruismo di persone sconosciute che si sono prese cura di loro. Anche a loro è dedicata la mostra “Shoah. L’infanzia rubata” inaugurata il 27 gennaio nella Casina dei Vallati, in via del Portico d’Ottavia.

 Il 16 ottobre 1943, quando 1.024 ebrei romani, tra i quali 200 bambini, furono deportati nei campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau, c’erano anche loro nel ghetto. Di Porto aveva 12 anni, Mieli solo due e mezzo. Emanuele, che oggi ha 89 anni, ricorda tutto di quella mattina, dei soldati che arrivarono prima delle cinque e della mamma Virginia, 37 anni, che, pensando cercassero solo uomini, uscì di casa in tutta fretta per avvisare il marito di non tornare dal lavoro. «Ero affacciato alla finestra – ricorda l’uomo -. Ho visto quando l’hanno presa e costretta a salire su un camion. Sono corso da lei e sono salito sul mezzo ma mi ha spinto giù dal camion. Non l’ho più vista». Emanuele salì su un tram in transito in via di Monte Savello e si nascose vicino al bigliettaio. «Gli spiegai che ero ebreo e che fuggivo dai tedeschi che stavano portando via tante persone dal ghetto. Mi rispose di non muovermi». Per due giorni il bambino rimase nascosto sul mezzo e i vari conducenti e bigliettai che si alternarono provvedevano a procurargli il cibo necessario. «Mi hanno salvato la vita mettendo a rischio la loro», ha detto Di Porto, che è stato ad Aushwitz una sola volta. Parlando della recrudescenza dei fenomeni di intolleranza, razzismo e xenofobia afferma che è tutta colpa «dell’ignoranza. Bisogna conoscere quanto avvenuto per capire».

Mario Mieli invece era in braccio al papà Pacifico, 33 anni, che stava salendo sul camion dove c’erano già la moglie Graziella, non ancora trent’enne, e altri parenti. Una donna, non ebrea, rientrava dal mercato e passando vicino al mezzo vide il bambino. «Chiese a gran voce perché mi portavano via, ero troppo piccolo per lavorare – racconta Mario -. Tutti, infatti, credevano che i tedeschi prendessero solamente gli uomini e li reclutassero ai lavori pesanti. Sull’altro lato della strada, nascosta, c’era una mia zia che aveva saputo della retata e in silenzio disse alla donna che lei si sarebbe potuta prendere cura di me ma essendo ebrea non poteva avvicinarsi ai soldati». La signora, aiutata da un uomo che parlava tedesco, Arminio Wachsberger, anch’egli arrestato durante il rastrellamento, disse che il bambino era suo figlio. «Convinse i soldati tedeschi che fosse lei la mia “vera” mamma e che mi aveva affidato ai vicini perché doveva andare a fare la spesa – prosegue Mario -. Dopo qualche ora, mi affidò a mia zia. Non ho più visto i miei genitori e, anche se l’ho cercata, non sono riuscito a rintracciare quella donna grazie alla quale ho vissuto».

Tags: memoria, ebrei, deportazione, testimoni, occupazione nazista

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